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dal sito: "ArtistiInPadova - EBIA eBook Italian Academy"  |  originale¹
2015
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Arte generativa

Creatività condivisa fra arte e scienza, fra uomini e macchine

intervista di Beppe Simonetti a Maurizio Turlon

B.S. L'arte del presente ... (omissis) ... vede un nuovo protagonista affacciarsi alla scena già da tre o quattro decenni: il computer. All'inizio si parlava di arte computazionale. Prima di entrare in merito ad alcuni temi specifici di questa forma di fare arte, e vista la natura tecnologica che, a sua volta, deriva dalla scienza e dalle applicazioni scientifiche, vorrei chiedere a te artista di formazione scientifica, che rapporto vedi fra arte e scienza, fra la creazione artistica e la ricerca scientifica?

M.T. Personalmente ritengo anacronistica e fuori luogo la usuale contrapposizione tra arte e scienza.
Artisti e scienziati fanno sostanzialmente la stessa cosa: esprimono in modo creativo la formalizzazione di simboli e la simbolizzazione di forme. Le differenze stanno unicamente nel vocabolario di forme e simboli a cui le due figure attingono e nel linguaggio in cui si esprimono.
Nel primo caso le forme sono di origine varia (naturale, onirica, letteraria, ...) mentre i simboli sono elementi di sintesi umanistica (storico-filosofica, religiosa, ...) . I linguaggi usati per formalizzare e simbolizzare hanno diversa ispirazione, presentano aspetti dogmatici, sono spesso liberi da modelli e non necessariamente rigorosi.
Nel secondo caso, le forme sono di origine astratta (funzionale, logica, tabellare, ...) mentre i simboli sono elementi di sintesi disciplinare (geometria, fisica, ...). I linguaggi usati per formalizzare e simbolizzare sono la matematica e l'algoritmica, richiedono impostazione assiomatica, sono rigidamente vincolati a modelli e necessariamente rigorosi.
La divaricazione tra le due figure nasce nel '600 con l'introduzione del metodo galileiano in un momento storico in cui le forme e i simboli, semplici e limitati, della giovane cultura scientifica non potevano certo rivaleggiare come espressione estetica con i corrispondenti, complessi e di ampio respiro, della più matura cultura umanistica.
Le diverse condizioni di partenza hanno fin d'allora introdotto una sottovalutazione dei contributi estetici della cultura scientifica spesso accompagnata dall'incapacità concettuale e strumentale di riconoscere scientificità intrinseche in opere della cultura umanistica. In realtà, la divaricazione operata è stata solo un'artificiosa distinzione tra creativo galileiano (lo scienziato) e creativo non galileiano (l'artista).
Lo scienziato è semplicemente un creativo che, per ragioni storiche, gioca sistematicamente fuori casa quando si parla d'arte. Purtroppo spesso si dimentica che le abitazioni dei più grandi artisti siano state ritrovate colme di documenti che registravano lo stato della cultura scientifica dell'epoca e, viceversa, che i più grandi scienziati fossero anche cultori di discipline quali la musica, la pittura o la letteratura. Poco importa per alcuni che l'albero di un pittore si possa simulare con un processo di casualizzazione da una semplice struttura astratta di origine fisico-matematica quale un dipolo.
Si potrebbe facilmente obiettare che la cultura umanistica ha saputo esprimere forme, di sublime complessità ed eleganza, inarrivabili per produzioni di natura puramente scientifica. Ciò è sicuramente vero per il passato e lo sarà ancora a lungo in molte discipline. Tuttavia, è innegabile constatare come l'attività di simbolizzazione nella cultura scientifica si è nel tempo progressivamente arricchita di nuove esperienze concettuali evidenziando un progressivo affinamento di strumenti e tecniche di formalizzazione, quali le esplorazioni algoritmico-computazionali, in grado di proporre elementi estetici fino a poco tempo fa inconcepibili.
Così come siamo affascinati dal sorriso enigmatico della Gioconda, si può essere altrettanto affascinati dalle prodigiose simmetrie di forme geometriche definite in iperspazi con un numero arbitrario di dimensioni.
Evitando di ridurre il confronto a una banale contrapposizione tra forme e simboli di serie A e di serie B, tra essenza umana ed essenza artificiale, tra pennello e computer o tra manualismo e tecnicismo, s'intuisce l'opportunità di un punto di vista che ricomponga l'antica divaricazione tra artista e scienziato.
La questione si sposta pertanto sulla ricerca delle modalità creative che meglio si prestino a quest'attività di ricomposizione nella certezza che le figure di artista-scienziato o di scienziato-artista possano dar corso a importanti novità espressive.

B.S. Il tuo discorso entra subito nel merito specifico di usare il computer come strumento per produrre opere d’arte. Non si tratta, in questo caso, di un mero uso di programmi di grafica che “aiutano” a disegnare, ma programmi che generano opere d’arte “quasi” in assoluta autonomia. L’artista, in questo caso, è anche un informatico che “crea” gli algoritmi che permetteranno al computer di generare un qualcosa degno di essere considerato arte. Non voglio dire di più perché vorrei che fossi tu a parlarci di questo modo di fare arte, chiamato ”arte generativa".

M.T. L'arte generativa è una espressione creativa, necessariamente mediata da un codice (software generativo), risultato di un processo a cui contribuiscono, con diversi gradi di autonomia, artista e sistemi non umani. Si propone di rappresentare con modalità varie (forme, colori, suoni, ...) strutture originate da differenti esperienze formative ed è in grado di esprimere importanti elementi estetici (complessità, casualità, armonia, ...) nell'ambito di composizioni di natura varia (pittorica, letteraria, musicale, ...).
Per le sue caratteristiche e potenzialità appare come la modalità espressiva più adatta a coniugare il rapporto tra arte e scienza e a superarne le artificiose contrapposizioni.
Restringendo l'ambito operativo, un ruolo particolare riveste la pittura generativa che, in un personale tentativo di sintesi di quanto sopra, definirei come:
"composizione di natura pittorica realizzata con tecniche e codici computerizzati da strutture logico-matematiche, fisico-chimico-biologiche o da libere matrici numeriche, associabili a spazi di dimensioni arbitrarie, che si generano ed evolvono con o senza interferenze, secondo modalità deterministiche, semideterministiche o casuali, originando una traccia registrabile, non necessariamente riproducibile e comunque non ricostruibile o controllabile senza l'uso di sistemi non umani"
dove il termine semideterministiche è inteso da riferire alla "capacità del codice generativo di assumere delle decisioni autonome, in base a regole precodificate, a fronte dell'introduzione in itinere di eventi interni o esterni casuali".
In letteratura, è aperto il dibattito sulla funzione che deve avere la presenza d'interventi non umani nell'arte e, in particolare, su questioni strettamente inerenti all'arte generativa (paternità, autonomia, creatività, ...). Tra gli elementi di discussione, mi limiterei a porre l'accento su due temi che emergono implicitamente dalla mia precedente definizione: da un lato il governo dell'opera, con la capacità di distinguere un risultato umano da uno artificiale e, dall'altro, il ruolo dell'ordine e della complessità in fase di generazione e percezione.

B.S. Interessante e quasi perturbante, quello che dici. Forse è il caso di fare qualche riflessione. In particolare puoi approfondire i concetti di "governo dell'opera" e capacità di "distinguere tra risultati"?

M.T. Fin da quando ho iniziato a intravedere delle applicazioni artistiche per un codice software che avevo realizzato per scopi scientifici, uno degli obiettivi primari della mia esperienza in pittura generativa è stato proprio quello di vedere fino a che punto fosse possibile sia governare una produzione artificiale sia emulare una pittura comunemente intesa in termini di aspetto, cromatismo e stile esecutivo.
Un pittore tradizionale è protagonista dal primo all'ultimo istante della sua creazione con continui interventi in itinere, voluti o casuali, che definiscono il modo in cui governa l'opera. Viceversa, un pittore generativo opera, per così dire, in modo galileiano cioè definisce in termini algoritmo-matematici una struttura, fissa le condizioni iniziali del suo sviluppo, ne lascia evolvere la forma cercando d'individuare gli elementi d'intervento, osserva il risultato generativo e ripete il ciclo con modifiche opportune fino a ottenere una produzione finale consona alle aspettative.
In altri termini, se il codice software è sufficientemente evoluto, anche il pittore generativo è in grado di governare il risultato finale di un'opera. Gli elementi casuali possono essere opzionalmente introdotti con funzioni matematiche mirate definendo la portata deterministica, semideterministica o non deterministica delle forme conclusive. Forme che possono attingere dall'infinito serbatoio delle strutture algoritmo-matematiche con risultati sorprendenti per il fruitore dell'opera e, spesso, per lo stesso artefice.
Tralasciando l'origine e la complessità delle forme realizzabili, è importante sottolineare come un codice generativo sufficientemente ricco possa anche emulare i più vari stili pittorici dal punto di vista delle risultanze cromatiche e compositive (sfumature, effetti ottici, tratti informali, sovrapposizioni, ...). Ciò pone in primo piano un elemento di analisi molto suggestivo: la capacità di distinguere una produzione umana da una artificiale.
Nell'epoca della intelligenza artificiale, che ha come scopo primario la costruzione di una macchina in grado di riprodurre ed emulare funzioni cognitive umane, esiste un noto test, detto di Turing, finalizzato a determinare fino a che punto una macchina sia in grado di pensare o, più semplicemente, d'ingannare un interlocutore umano nella sua capacità di riconoscerla come interlocutore artificiale.
Senza entrare nel merito delle varie e discusse formulazioni del test, è utile ricordare come, ai giorni nostri, sono già stati prodotti dei sistemi in grado d'ingannare più di un terzo dei soggetti coinvolti inducendoli a pensare di aver dialogato con un essere umano anziché con un software.
Anche alcuni miei lavori di pittura generativa possono essere umilmente interpretati come dei mini test di Turing. E' infatti significativa la frequenza con cui, di fronte a essi, in molti abbiano pensato a una produzione manuale attribuendo le sfumature cromatiche o gli effetti grafici a un raffinato utilizzo dell'aerografo o a un uso maniacale di riga e compasso.
La cosa è sicuramente divertente e ancor più lo è vedere i volti sorpresi delle persone quando vengono informati che si tratta di produzioni artificiali. Altrettanto significativo è osservare le reazioni successive che lasciano spesso trasparire rifiuto e fragili tentativi di minimizzazione volti a nascondere un disagio variamente motivabile.
In molti casi, le evidenti complessità e le perfezioni ordinali delle opere di pittura generativa sono più che sufficienti per fugare ogni possibile dubbio sulla loro origine artificiale. Tuttavia, la questione della distinguibilità rimane aperta fornendo spunto ad altri argomenti di riflessione. Tra essi, evidenzierei le limitate esperienze visuali connesse a strutture di origine algoritmico-matematica, le difficoltà a riconoscere le medesime strutture in forme di origine naturale e, non ultimo, il ruolo chiave che ha la percezione dell'ordine in una struttura complessa nelle valutazioni di tipo estetico.

B.S. Siamo, mi sembra entrati nel cuore di un tema fondamentale per tutta l’arte moderna e non solo per l’arte genarativa: cosa intendi quando parli di “percezione dell'ordine nella complessità”?

M.T. Un pittore generativo con sufficienti esperienze e competenze in ambito fisico-matematico è in grado di progettare codici software capaci di realizzare forme estremamente complesse e, al tempo stesso, ricche di simmetrie, periodicità ed elementi d'ordine in scenari d'implicita perfezione.
Alcuni miei lavori, basati su forme geometriche definite in spazi n-dimensionali, su logiche multivalore o su processi iterativi di natura algoritmica, presentano proprio le caratteristiche di cui sopra prestandosi a sperimentare una interessante questione: la reazione del pubblico alla vista di strutture complesse evidenzianti elementi d'ordine impliciti o espliciti.
La questione è di non poco conto in quanto funge da discriminante nella emersione di componenti attrattive in un'opera generativa e, conseguentemente, sulla sua valutazione estetica.
La maggioranza delle persone ha quasi timore delle strutture complesse e ordinate quasi fosse alla ricerca d'imperfezioni o di elementi caotici differenzianti. Ciò è del tutto naturale e comprensibile in quanto, come c'insegna la termodinamica, la presenza di una differenza costituisce l'elemento indispensabile per costruire un motore in grado di convertire risorse grezze in raffinate, idee in invenzioni o, più semplicemente, per stimolare ed esprimere vitalità. In altri termini, la visione di una forma complessa che accenni a ordinamenti e che evidenzi imperfezioni costituisce un elemento di piacere.
Viceversa per una minoranza di persone, la percezione di elementi d'ordine in una struttura costituisce l'elemento portante per speculazioni finalizzate ad attività di sintesi. In questo contesto la presenza di disordini o d'imperfezioni ha un ruolo di disturbo, che può addirittura sfociare in dolore fisico come nel caso delle personalità autistiche, mentre la presenza di regolarità e di simmetrie assicura serenità e attrattività. Confrontata al caso precedente, la visione di una forma complessa priva di ordinamenti e incompleta o imperfetta costituisce un elemento di sofferenza.
L'evoluzione storica dell'umanità è piena di processi attribuibili al piacere o alla sofferenza dei suoi protagonisti. Sarebbe interessante stimare quale delle due modalità operative sia stata nei secoli più efficace ed efficiente. Sicuramente curioso è poter constatare che i due diversi tipi di percezione sono in grado di orientare, in forma conscia o inconscia, l'impatto su un'opera mettendo in secondo piano ogni successiva valutazione di tipo estetico.

B.S. Devo ammettere di essere, da una parte frastornato e, dall’altra ammirato. Ti chiedo il permesso di alleggerire il tono scientifico del nostro discorso e proseguire con alcune domande che possono sembrare banali, ma sono ben presenti in chi guarda i tuoi lavori. Pensando anche all'optical art, essi offrono, come tutte le opere d'arte, una "esperienza estetica". Prese così, la loro origine/natura informatico/matematica sembra perdere d'importanza. E' vero? Se fosse vero, perché la gente, quando viene a saperlo si stupisce, sgrana gli occhi e scuote la testa, quasi a sminuire il loro valore, se non la bellezza. Qualcuno dice che sono freddi, senz'anima, …

M.T. Come ho cercato d'illustrare dissertando sulla distinguibilità e sulla percezione, i miei lavori vanno a intercettare una serie di elementi prevalentemente inconsci. Primo tra tutti il rapporto con gli elementi d'ordine di una struttura complessa. Tale rapporto mette in gioco il fatto che ognuno di noi è un soggetto molto più matematico di quanto pensa di essere. Ciò che ci attrae dal punto di vista estetico è, in realtà, la condivisione e il veder rappresentato forme e ordinamenti connaturati. E' un problema di divisori comuni che il tempo ci ha disabituato a leggere e riconoscere nella loro essenza logico-matematica ma che sono sempre latenti ogni qualvolta ci confrontiamo con forme e simboli in questioni estetiche.
Quanto poi alle reazioni della gente (stupore, scuotimenti, freddezza, ...) direi che rientrano tranquillamente nelle questioni che ho illustrato in precedenza relativamente alla distinguibilità e al test di Turing. E' difficile aspettarsi che una persona si possa entusiasmare dal punto di vista estetico dopo aver scoperto di essere stata ingannata da un software. Non è quindi casuale che, in presenza di forme complesse e di ordinamenti fuori dal comune, la gente anziché essere incuriosita, preferisca arroccarsi e spostare l'attenzione su più congeniali e minimizzanti aspetti cromatici o materici (... non mi piace il viola, è una stampa, ...).
Hai citato l'optical art e questo mi fornisce lo spunto per sottolineare quanta strada ci sia ancora da percorrere e quale possa essere il ruolo dell'arte generativa. Condizionati da limiti materici, gli elementi fisico-matematici che stanno alla base dell'optical art sono semplici dal punto di vista simbolico-formale e la loro anima risente sia della limitata complessità sia della ridotta capacità d'intercettare divisori comuni interdisciplinari. Viceversa, l'arte generativa è decisamente più armata dal punto di vista di gestione della complessità e, in prospettiva futura, è in grado di mettere in gioco creatività inattese unite a straordinarie ricchezze disciplinari.

B.S. Il fatto che i lavori siano generati da un algoritmo che viene avviato da uno o più input umani può fa sorgere il dubbio che si tratti di "opere artificiali"? In altri termini, si tratta di arte o di mero esercizio logico/informatico?

M.T. La domanda nasconde alcuni pregiudizi che spero di aver depotenziato disquisendo sul rapporto tra arte e scienza e analizzando la questione del governo dell'opera. Personalmente ho grande rispetto per ogni forma di espressione creativa e sarei molto prudente nell'assegnare l'etichetta di arte. Per formazione scientifica, ho bisogno di definizioni e assiomi.
Mi è molto più facile ironizzare sul "mero esercizio logico/informatico" che mi ricorda molto coloro che pensano che i computer siano scatole magiche che fanno tutto da sole, che la matematica sia far calcoli o che un algoritmo sia una specie di logaritmo che hanno studiato inutilmente alle superiori. Chissà perché se un'opera viene realizzata dall'uomo con pennello o scalpello l'artefice è solo l'uomo mentre se viene realizzata dall'uomo con un computer l'artefice diventa improvvisamente solo il computer. Credo che il dubbio sulle opere artificiali sia solo una questione di favolistica memoria sull'uva acerba.

B.S. Tu hai realizzato un software per l’arte generativa, e come te tanti altri: in che percentuale vi considerate programmatori/informatici e in che percentuale artisti?

M.T. Anche a questa domanda penso di aver già risposto disquisendo tra creativo galileiano e non galileiano. Mi limito a rilevare la sensazione della presenza di un preconcetto volto a minimizzare la figura e l'attività dell'informatico. Sono ben conscio del fatto che per molti padroneggiare un computer significhi solo essere velocissimi a sfiorare un touchscreen o conoscere tanti siti da cui scaricare, per un uso superficiale, qualche misteriosa applicazione. Forse sarebbe il caso di sottolineare più spesso che le attività di progettazione e realizzazione di un algoritmo sono estremamente creative e impegnative soprattutto se l'obiettivo disciplinare è complesso e si desidera governare a pieno il tipo di competenza in gioco. La cura nella struttura, nella formulazione e nelle proprietà sono aspetti imprescindibili di un algoritmo che hanno una precisa valenza estetica e che solo chi non ha mai programmato rifiuta di riconoscere. Qualche snob di estrazione umanistica sorride quando qualcuno parla di algoritmi come espressione artistica dimenticando che l'epiteto arte è stato spesso attribuito dalla storia a produzioni ben più dubbie.
Per quanto mi riguarda spero di aver chiarito in precedenza quanto è fuori luogo ragionare in termini di percentuale artistica. So solo quello che non sono: un creativo non galileiano. Posso unicamente affermare che la mia mente si sente molto più stimolata e coinvolta quando, per disegnare un albero, è sfidata a usare, al posto di colori e pennelli, un paio di formule e quattro righe di codice.

B.S. Immaginiamo di realizzare due algoritmi: uno che disegna figure (oggetti, corpi, volti, ecc...), un secondo che modifica il disegno realizzato dal primo secondo criteri inseriti da te o generati dall'algoritmo stesso, variando alcuni parametri dell'originale: il risultato darebbe opere d'arte? Probabilmente molte immagini prodotte saranno da gettare, ma alla lunga qualcuna sarà accettabile. In questo caso sarà un'opera d'arte o un mero artefatto? Se partiamo con un primo piano generato dall'algoritmo 1, a forza di provare verrà fuori la Gioconda?
Nota: non ti viene in mente il volume infinito della Biblioteca di Babele di Borges?

M.T. La domanda è provocatoria e ho in parte già risposto disquisendo sulla distinguibilità. Il pensiero in ombra è che non sia possibile costruire algoritmi in grado di realizzare forme e simboli altrettanto alti di quelli realizzati nella storia dell'arte e che, parallelamente, per quanto ci si possa cimentare in tentativi di variare parametri pescando con un codice in un mare caotico di possibilità, sia inimmaginabile, in tempi finiti, raggiungere le vette di enigmaticità della Gioconda.
La risposta è fin troppo ovvia per la giovane arte algoritmica anche se, confrontando i rigidi volti dei vecchi cartoni animati con gli espressivi avatar dei nostri giorni, è facile profetizzare che tra non molto sarà pressoché impossibile distinguere un volto umano da uno artificiale. Preferisco quindi limitarmi a evidenziare una obiezione di carattere strategico: pensare a un algoritmo primario, capace di disegnare figure ideali, e a un algoritmo secondario, che, a forza di provare, conduca con processi perturbativi a un risultato accettabile, equivale a pensare che Leonardo abbia preso come modella la prima donna incontrata e abbia poi perso ore e ore in ritocchi successivi fino a riuscire a rappresentarla con un sorriso enigmatico.
Più propriamente, l'aspetto fondamentale è che sia la genialità umana, conscia o inconscia, sia l'intelligenza artificiale operano fin dall'inizio costruendo i prerequisiti affinché un dato risultato debba in qualche modo essere il diretto, non casuale e inevitabile frutto di una strategia. In altri termini, la definizione di opportune condizioni iniziali e l'adozione di rigidi criteri esecutivi possono essere da soli sufficienti a garantire convergenze esteticamente significative. I tanti riferimenti alla sezione aurea della Gioconda dovrebbero far riflettere in tal senso.
Non sarei quindi così sicuro che Leonardo, vivendo ai nostri giorni, preferirebbe fare arte con un pennello anziché produrre artefatti con un computer. Non sono convinto che esistano figure automaticamente artistiche perché più vicine ai sensi contrapposte a figure pregiudizialmente artefatte perché più vicine a un algoritmo. Non credo che i software siano solo animali da soma, utili a gestire un mare di dati più o meno casuali, e che siano incapaci di proposte creative.
Sono viceversa certo che stiamo andando verso un futuro di realtà aumentata alla presenza di ibridi sempre più abili a formalizzare simboli e simbolizzare forme.
Infine, rispondendo al tuo riferimento alla Biblioteca di Babele e riprendendo alcuni argomenti precedenti, consentimi un'ultima digressione.
Una composizione (pittorica, letteraria, musicale, ...) può essere interpretata, in uno spazio di simboli (colori, lettere, note, ...), come una sequenza di operazioni definite in termini di operandi (cromie, parole, accordi, ...), operatori (assetti cromatici, strutture poetiche, partiture, ...) e risultati (riquadri, versi, brani, ...). La selezione in itinere tra operandi e operatori definisce caratteristiche, stile e risultanze della composizione. Il ruolo chiave è esercitato dagli operatori che assumono valenza creativa con funzioni discriminanti nel susseguirsi dinamico e scambievole tra operandi e risultati.
Questa interpretazione, per quanto astratta e tortuosa possa apparire, ha il vantaggio di trasformare la questione in un esercizio di logica e quindi fornire indicazioni sul numero di operatori che possono intervenire in una composizione. Per esempio, anche limitando a due il numero di operandi nello spazio dei venticinque simboli ortografici della Biblioteca di Babele, non è difficile dimostrare che il numero di operatori potenzialmente creativi è dato da un intero di ottocentosettantaquattro cifre che fa impallidire l'intero di diciotto cifre associato al numero di secondi trascorsi dal Big Bang.
L'approccio è volutamente paradossale ed evidenzia quanto sia vano pensare di delegare un algoritmo a pescare liberamente in una caotica molteplicità di possibilità creative ma, al tempo stesso, quanto sia altrettanto irragionevole immaginare che ci riesca magicamente il cervello umano nelle medesime condizioni.
E' più opportuno, pertanto, spostare l'attenzione su più fertili aspetti concettuali. In particolare, quanto sopra c'induce a investigare su quali debbano essere le proprietà di un operatore affinché sia in grado di lasciare una traccia riconoscibile in una composizione. La questione, per quanto astratta possa sembrare, è comune all'intelligenza sia umana sia artificiale. Senza entrare in dettagli matematici, è importante evidenziare che solo gli operatori con particolari proprietà (simmetria, periodicità, autosimilarità, ...) sono intrinsecamente in grado di evolvere e sopravvivere in un processo iterato di composizione conservando la firma di una struttura e inglobando elementi di disturbo caotici. Il possesso di questi requisiti riduce drasticamente il numero di operatori utili e induce a pensare che anche il cervello umano operi consciamente o inconsciamente con criteri analoghi.
Quest'ultima questione ben si colloca a compendio di tutti gli argomenti sviluppati con particolare riferimento alla percezione dell'ordine nella complessità. Mi conforta e non mi sorprende, infatti, che Borges parli di biblioteca illimitata e periodica, navighi tra simmetrie e dedichi le ultime fondamentali righe del racconto proprio all'aspetto dell'Ordine sia come elemento di struttura sia come criterio di ricerca umana.

B.S. Grazie, Maurizio, soprattutto di aver accettato le mie domande così scontate, quasi banali. Certo è che il dibattito/ fra arte e scienza è aperto, intrigante e attuale. Avremo occasione, spero, di continuarlo anche in altre sedi.